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.Fra una tazza di tè verde e l’altra, lo psicologo rasato ci condusse per mano attraverso le asperità di quegli anni.Mi consigliò di «rimanere in trincea» e di non interferire nelle questioni relative ai miei figliastri, che in realtà erano la causa principale dei nostri litigi.Willie regala un’automobile nuova a suo figlio che è stato appena espulso da scuola e fluttua felice in una nuvola di LSD e marijuana? Non è un mio problema.Si schianta contro un albero distruggendola dopo una settimana? Io rimango in trincea.Willie gli compra una seconda automobile, che viene regolarmente fatta a pezzi? Mi mordo la lingua.Suo padre decide allora di premiarlo comprandogli un pick up e mi spiega che è unveicolo più sicuro e stabile.«Giusto.Così, quando investirà qualcuno, almeno non lo ferirà e lo ucciderà sul colpo» replico con tono glaciale.Mi chiudo in bagno, faccio una doccia fredda, recito il repertorio completo delle mie parolacce, e subito dopo vado per alcune ore a fare collane nel laboratorio di Tabra.La terapia fu molto utile.Grazie a essa e alla scrittura sono sopravvissuta a diverse prove, anche se non ne sono sempre uscita vittoriosa, e il mio amore per Willie si è salvato.Il melodramma familiare, per fortuna, è continuato, altrimenti di cosa diavolo potrei scrivere?UNA BAMBINA CON TRE MADRIA Jennifer era permesso vedere Sabrina ogni due settimane durante visite sorvegliate, e in quelle occasioni potevo invariabilmente constatare quanto si stesse aggravando la figlia di Willie.Il suo aspetto peggiorava di volta in volta, come spiegavo per lettera a mia madre e alla mia amica Pia.In Cile, entrambe fecero delle donazioni all’orfanotrofio di padre Hurtado, l’unico santo cileno che perfino i comunisti venerano ritenendolo capace di grandi miracoli e pregarono perché Jennifer invertisse la rotta e si salvasse la vita.In realtà solo un intervento divino poteva aiutarla.E qui devo fare una breve pausa per metterti al corrente di Pia, praticamente una mia sorella cilena, la cui lealtà non ha mai vacillato, nemmeno quando l’esilio ci ha separato.Pia è cresciuta in un ambiente molto cattolico e conservatore, che festeggiò a champagne il golpe militare del 1973, ma so che almeno in un paio di occasioni nascose in casa sua vittime della dittatura.Raramente abbiamo affrontato il tema politico.Quando me ne andai con la mia piccola famiglia in Venezuela, iniziammo a scriverci regolarmente, e ora ci vediamo in Cile o in California, dove viene in vacanza; così abbiamo mantenuto un’amicizia che ormai ha il fulgore di un diamante.Ci amiamo incondizionatamente e quando siamo insieme dipingiamo quadri a quattro mani e ridiamo come ragazzine.Ricordi che eravamo solite dire per scherzo che un giorno ci saremmo trasformate in due allegre vedove e che avremmo vissuto assieme in un solaio, spettegolando e dedicandoci a lavoretti manuali? Be’, Paula, ormai non ne parliamo più perché Gerardo, suo marito, l’uomo più candido e benevolo di questo mondo, una mattina come tante altre morì, mentre stava supervisionando il lavoro in uno dei suoi allevamenti.Fece un sospiro, piegò la testa e se ne andò all’altro mondo senza fare in tempo a congedarsi.Pia non è mai riuscita a consolarsi, nonostante sia attorniata dal suo clan: quattro figli, cinque nipoti e mezzo centinaio di parenti e amici con cui è in contatto continuo, come è abituale in Cile.Si dedica a ogni forma di carità , si prende cura della sua famiglia e dei suoi oli e pennelli, con i quali si distrae nei momenti liberi.Nei momenti di tristezza, quando non riesce a non piangere Gerardo, si chiude in casa a cucire e a fare prodigi con scampoli di stoffa o persino con quelle icone che ricama in rilievo con pietre preziose che sembrano reperti dell’antica Costantinopoli.Questa Pia, che tanto ti amava, ha fatto costruire una cappella nel suo giardino e ha piantato un roseto in tuo ricordo.Lì, nei pressi di questa generosa pianta, parla con Gerardo e con te e prega spesso per i figli e la nipote di Willie.Rebeca, l’assistente sociale, si occupava dell’organizzazione degli incontri tra Sabrina e sua madre.Non era facile, visto che il giudice aveva ordinato di evitare che Jennifer e il suo compagno incontrassero le madri adottive o scoprissero dove vivevano.Fu e Grace si trovavano con me nel parcheggio di qualche centrocommerciale e mi consegnavano la bambina, con pannolini, giocattoli, biberon e il resto della smisurata dotazione di cui hanno bisogno i piccoli.La sistemavo su uno dei seggiolini che avevo in macchina per i miei nipoti e mi dirigevo verso il comune, dove mi aspettavano Rebeca e una donna poliziotto che cambiava ogni volta, ma che invariabilmente aveva un’aria annoiata.Mentre l’agente sorvegliava la porta, Rebeca e io attendevamo in una sala, in estasi davanti alla bambina, che era diventata molto bella e sveglia; non le sfuggiva nulla.Aveva la pelle color caramello, riccioli da agnellino e quegli incredibili occhi da urì.A volte Jennifer veniva all’appuntamento, altre no.Quando compariva, ridotta a un fascio di nervi, con l’aria inquieta di una volpe braccata, non rimaneva più di cinque o dieci minuti.Prendeva sua figlia in braccio e notando quanto era leggera o sentendola piangere provava smarrimento.«Ho bisogno di una sigaretta» diceva; usciva in fretta e spesso non tornava
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